Ora anche i più giovani sanno cos’è il Toro…

In questi ultimi vent’anni la presenza del Torino nel calcio che conta è stata piuttosto altalenante, con troppi campionati di serie B, promozioni e retrocessioni che gettavano alle ortiche le speranze che ogni anno riponevano i tifosi granata. Ma dopo il 1992 quando il Torino perse la finale di coppa UEFA con quella sciagurata partita ad Amsterdam, coi due pali e la traversa colpita da Gianluca Sordo a due minuti dalla fine e quelle lacrime versate da tutti quando al triplice fischio i lanceri del’Ajax ci alzavano la coppa in faccia sotto le note di “we are the champion” e le parole di Cravero intervistato a fine partita che suonavano come una sentenza “credo che esiste solo una società al mondo che perde le finali così: questa è il Torino. Siamo maledetti, non so cosa altro dire“, in molti hanno capito cosa significa essere veramente del Toro, provando quel sottile piacere della sofferenza che come una malattia ti spinge ad amare maggiormente chi ti fa star male.

Quella sofferenza, quell’urlo strozzato in gola ogni qual volta quel pallone sembrava varcare la linea di porta olandese, e poi il palo a negare la gioia di un trionfo che sembrava voler a tutti i costi sfuggirci ogni volta che lo si vedeva, lo si poteva quasi toccare con mano e invece svaniva contro quei maledetti legni. E poi la fine della gara, l’incredulità mista a sofferenza, lacrime ma la consapevolezza che quel “battesimo” di cosa volesse dire essere granata, aveva incrementato maggiormente l’amore verso questa maglia, fortificando ancor di più l’essere un granata vero che sa soffrire, che piange per la sua squadra ma che la ama ancora di più, quasi come se il senso di amore e appartenenza aumentasse ad ogni delusione. Quello strano piacere della sofferenza che il tifoso granata ben conosce e che per chi era giovincello nel 92, non si era ancora materializzato, ma che quella maledetta finale ha permesso di forgiare.

Battesimo che stava per ripetersi l’anno successivo, quando dopo un cammino esaltante in Coppa Italia, dopo aver addirittura eliminato la Juventus in semifinale e liquidato la Roma per 3-0 nella finale di andata, la finale di ritorno ha visto un Toro sconfitto per 5-2 con tre rigori quantomeno discutibili concessi ai giallorossi dall’arbitro Sguizzato, e addirittura 9 minuti di recupero, quasi come se si volesse concedere alla Roma il tempo per segnare il sesto goal e portare a casa la coppa. Come sempre accade al Toro, anche quella finale sembrava la solita storia vista più volte, ovvero la vittoria che sembra ampliamente a portata di mano, negata da un evento che va al di la della logica e della normalità.

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Il Toro è quella società che negli anni ’40 era stata in grado di costruire una squadra invincibile, capace di vincere 5 campionati di fila, costituendo i 10/11 della nazionale italiana, che si schiantò tragicamente contro la Basilica di Superga di ritorno da un’amichevole a Lisbona il 4 maggio del ’49. Quanto ancora avrebbe potuto vincere quella squadra, quanto altri scudetti e coppe avrebbe oggi in bacheca il Torino senza quella sciagura? Quante lacrime sono state versate quel 4 maggio?

Così come quante lacrime sono state versate per la tragica fine di Gigi Meroni, investito in corso Re Umberto la sera del 15 ottobre 1967 da Attilio Romero, che sarebbe poi diventato presidente del Torino 30 anni dopo, portando insieme a Cimminelli la società al fallimento dopo 99 anni di storia. Le stesse lacrime versate undici anni dopo per una bandiera dei granata, quel Giorgio Ferrini, il guerriero, scomparso prematuramente non appena appese le scarpe al chiodo.

E come non citare la beffa di un campionato perso totalizzando 50 punti nel 1977 e la tragedia occorsa al presidente Pianelli negli anni successivi quando vide dilapidato tutto il suo capitale e il crollo di un impero costruito in 30 anni di onesto lavoro, a causa del rapimento del suo nipotino di appena 4 anni e il conseguente abbandono del Torino.

Passando per altre delusioni come quella del penalty fallito da Dorigo nella finale del playoff della B del 1998 quando il Torino venne sconfitto ai rigori dal Perugia. E ancora peggiori le lacrime sopraggiunte ormai a bocce ferme nel 2005 pochi mesi dopo la vendetta consumata sul campo proprio contro il Perugia nella finale playoff che regalò ai granata la serie A, con grandissime aspettative, visto i giocatori che il Toro aveva in organico, quando il fallimento del Torino Calcio oltre a negare la gioia della serie A, rischiò di far scomparire addirittura i granata.

Da allora poco o nulla, se non le due promozioni dalla B, ma anche tanta amarezza, con la retrocessione del 2008 che ha segnato la fine di uno storico gemellaggio col Genoa, due stagioni anonime in serie B e l’arrivo di Ventura che ha fatto rivedere un po’ di sereno in casa granata.

Ma quella di domenica è sembrata la scena di un film scritto da un regista geniale, quello che sa farti deprimere, poi gioire e di nuovo deprimere, ma soprattutto tenerti incollato allo schermo fino alla fine, fino all’ultimo secondo. Una partita che arrivava al termine di una stagione perfetta, entusiasmante, come entusiasmante fu la coppa UEFA del ’92, o il campionato del 50 punti, e ancora la vendetta nella finale playoff contro il Perugia, ma con un finale assurdo che ha gettato nella disperazione chiunque ami questa maglia, proprio quando sembrava che tutto fosse sistemato, e che finalmente potesse risplendere il sole anche su questi colori.

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Quel goal a dieci minuti dalla fine di Kurtic, e l’atteggiamento dei 22 campo, sembrava riaccendere le speranze dei granata, e quando l’arbitro Rizzoli ha fischiato quel calcio di rigore al 93′ per atterramento di Barreto, sembrava fatta. Era il riscatto, la gioia pronta ad esplodere dopo anni di sofferenze e delusioni. Le lacrime che già scendevano, perché quel rigore sembrava la consacrazione di una stagione che per molti voleva dire rivincita e rivalsa, un “regalo” che il destino aveva voluto concederci per compensare tanta sofferenza.

Questo doveva essere il nostro anno, l’anno in cui le lacrime sarebbero state finalmente di gioia, per un sesto posto, che per i granata era la vita, la rinascita e la speranza di un futuro finalmente migliore. La gioia perché tanto  “ben di Dio” a un minuto dalla fine sembrava davvero un qualcosa di incredibile ma di incredibilmente bello. Bastava buttare dentro una palla, simile a quella che il nostro campione aveva insaccato altre 5 volte in stagione con una facilità che sembrava disarmante. Sembrava fatta, mancava solo quell’urlo liberatorio, quella corsa a braccia alzate che chiunque avrebbe fatto per celebrare un successo che fino a pochi mesi fa sembrava fantascienza. Cerci era li, col pallone davanti a se, la rincorsa breve, il tiro… Un brivido, il portiere para, si ripete la beffa, le lacrime, la sofferenza, la disperazione di Cerci che ricordava molto quella di Cravero e compagni nel ’92, ancora una volta quella maglia maledetta, ma per questo ancor più amata aveva regalato un fiume di lacrime a chi la indossava e una quasi incredulità di chi aveva sperato fino all’ultimo che il destino per una volta si fosse ricordato anche di chi tifa Toro.

Per i meno giovani l’ennesima sofferenza che al posto di allontanare, avvicina ancor più a questa maglia, come chi ricorda i bei momenti trascorsi con la persona amata che ti ha appena tradito, e per i più giovani un vero e proprio battesimo, che fa capire cosa significhi essere granata, cosa significhi amare questa maglia, questi colori maledetti, che è impossibile non amare al di la del risultato, aspettando che un giorno, dall’alto qualcuno si ricordi anche di noi, e che quelle lacrime possano finalmente diventare di gioia.

 

Comments

  1. Ivano C. says

    grandissimo articolo!
    è un piacere leggere una cosa del genere.
    scritto magnificamente
    cosa non facile da trovare sul web
    e………pieno di granaticita`.
    COMPLIMENTI.
    FORZA TORO!

  2. Passero says

    Ma basta con questo romanticismo sfigato!
    basta con questo pianherci addosso, con questo misticismo inutile e un pochino troglodita.
    Il Toro quest’anno se l’è andato a cercare questo finale da incubo, prima pareggiando con il Parma una partita che aveva in mano, poi non battendo una fiorentina rinunciataria, ma aspettandola troppo per paura di chissà cosa…….quando il sassuolo l’aveva ribaltata senza pietà.
    Quindi va bene il finale con combinazioni assurde, ma basta parlare sempre di sfiga, questa non è sfiga, io la chiamo piuttosto inesperienza, e incapacità di sicurezza nei propri mezzi.
    Una squadra così, che aspetta un avversario chiaramente svogliato nella sua metà campo, non ha le palle per affrontare una coppa in europa, con squadre che arrivano addirittura dalla champions league.
    Impariamo a voler vincere, non a piangerci addosso, perchè non esiste nessuna maledizione.
    Ho sentito la stessa frase con il Benfica, quando ha dominato la partita, ma davanti la porta subentrava la paura, e non è mai riuscita a centrare la porta in 20 tiri, alcuni anche clamorosi.Sfiga? no, incapacità di sapersi controllare, di avere sicurezza.
    Si può parlare di sfortuna, ma ricordo a tutti che se non facevamo 2 gol al 91′ e il 93′ contro il genoa, non avremmo mai lottato per la qualificazione, e quello non è fortuna?
    quindi basta, questa cantilena la sento da troppo tempo, insegnamo ai giocatori del toro a vincere.
    Ad esempio il prossimo anno perchè non puntare alla coppa italia? da un trofeo importante, e qualifica alla europa league.Puntiamo su quella, facciamo vedere che eravamo pronti ad affrontare un trofeo ad eliminazione diretta!
    e invece che si fa? il toro è l’unica squadra di quelle che lottavano per qualificarsi (insieme al verona forse)dove si parlava più dei giocatori in partenza(cerci e immobile su tutti) piuttosto che avere la sicurezza (del parlma ad esempio)nell’aver dietro una società solida e capace.
    Signori miei, il Toro quest’anno ha buttato via per incapacità nel reggere le pressioni, almeno 8 punti, non scordiamocelo.La qualificazione era una cosa bellissima, è indubbio, ma con il senno di poi, bisogna avere un progetto solido e serio.Lo scorso anno, abbiam ovenduto il capitano del Toro alla Juve.A gennaio siamo stati gli unici ad non aver investito molto sul mercato di riparazione, un segno chiaro del fatto che non ci credevamo affatto alla qualificazione, andava bene la salvezza.
    Basta, direi che è ora di cambiare mentalità, non ricordare maledizioni che non esistono

  3. Tifosi_si_nasce blog says

    Essere del Toro vuol dire soffrire, ma la leggenda di questo club non sarà oscurata da nessuna catastrofe, et sportiva et umana.

    Il Toro è LEGGENDA.

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