Quando incontri la tua squadra del cuore a soli 4 anni, durante una domenica pomeriggio in curva, allo stadio, il tuo destino, sportivo, è segnato. La Juve l’ho conosciuta così, direttamente allo stadio, perchè, allora, le pay tv non c’erano e, coppe a parte, la propria squadra la si poteva seguire solo dal vivo.
Ero bambino e amavo quella squadra. Di tanto in tanto mio padre mi portava allo stadio. Lui andava sempre, ogni domenica. Com’era diverso il modo di fruire il calcio ad inizio anni ’80: non si programmava settimane prima la visione di una partita ma, semplicemente, si prendeva la macchina e si andava al Comunale. Ogni domenica quindi, quando la Juve giocava in casa una partita di quelle definite tranquille (mai visto, da bambino, una partita contro il Toro, l’Inter, il Milan o la Roma, ma non mi perdevo uno Juventus – Ascoli!), dopo pranzo guardavo mio padre con la speranza che dicesse: “andiamo alla partita?”. Talvolta capitava che la domanda retorica scattasse quando erano già le 14. Ma da dove abitavamo noi, a Moncalieri, bastavano 15 minuti e si era in Via Filadelfia.
Poi, per qualche anno, basta. Un po’ era mio padre che aveva perso la voglia di andare allo stadio, un po’ era la sua paura di avere un figlio troppo innamorato della vecchia signora, al punto di, cosa realmente accaduta, fare il gesto dell’ombrello ad una zia che si divertiva a vedermi soffrire mentre la Juve perdeva (1-0 contro la Sampdoria, al pareggio della Juve scattò il gestaccio…).
A scuola ero un bambino tranquillo, attento ma non troppo, studioso il giusto. Con i compagni scherzavo e giocavo ma mi tenevo lontano dai guai. Senonchè un giorno il compagno più alto, più grosso e più cattivo della classe mi strappò il cappello dalla testa urlando: “Juve Merda“. Purtroppo per lui la mia reazione fu degna del mio Rocky Balboa. Il poverino si prese tanti di quei pugni da non permettersi più di parlare male della mia Juve durante le ore di lezione.
A quei tempi, la Juve si allenava al Combi, di fianco allo Stadio Comunale. Capitava spesso, quindi, quando si passava per un motivo o per un altro, da quelle parti, di fermarsi ad assistere all’allenamento. I giocatori arrivavano in macchina ed entravano negli spogliatoi del Comunale, per poi uscirne e raggiungere, a piedi e passando in mezzo alla gente, il Combi. Potevo quindi vedere i miei eroi e chiedere loro un autografo. Ricorderò sempre quando incontrai, e toccai, Michel Platini, il mio mito, altissimo e concentratissimo prima della semifinale di Coppa dei Campioni contro il Bordeaux.
La Juve era passione, gioia, dolori. Una mattina nevicava tanto su Torino. Tutti i miei compagni erano felici, smaniosi di uscire fuori a giocare con le palle di neve. L’unico che ardentemente sperava che smettesse ero io. La sera, infatti, era in programma Juventus – Liverpool, per la Supercoppa Europea.
Amare la Juve era anche chiedersi perchè potessero accadere certe immani tragedie. Ricordo perfettamente la sera della finale di Coppa dei Campioni che si disputava all’Heysel. Era un giorno speciale, non avevo fatto altro che pensare a quella partita per tutto il giorno. Poi le immagini assurde, la voce di Pizzul che ci aggiornava sui morti, mia mamma che quasi piangeva, mio fratello che, invece, giocava ad un gioco con il Commodore 64. Un gioco che avrei odiato per sempre.
La Juve era quella Coppa che sembrava maledetta. Vinta ma macchiata dal sangue di nostri concittadini o tifosi come me nel 1985, o persa come nel 1983, quando avevo 8 anni e ricordo quel tiro maledetto di Magath e il gol annullato a Brio, con quella palla che non voleva saperne di entrare. E, ancora, persa ai rigori contro il Milan nel 2003, quando rimasi oltre 3 ore dopo la fine della partita seduto su un gradino di un portone con lo sguardo perso nel vuoto ripetendo, ossessivamente: non seguirò più il calcio, non ha senso tutto questo dolore. Ma durò poco.
Avevo invece 14 anni quando se ne andò Gaetano Scirea. Dopo Platini era lui il mio idolo, quel difensore così elegante, pulito, serio, il Capitano della mia Juve. Lo avevo anche visto in un campo da calcio di periferia: lui seguiva suo figlio, Riccardo, io mio fratello, i due erano coetanei e giocarono contro. La notizia la appresi al Bar, mentre facevo colazione. Lo choc fu enorme, ovviamente.
Quando si ritirò Platini non immaginavo neanche minimamente che avrei perso l’abitudine a vedere la mia squadra trionfare con regolarità. Invece, dal 1986 al 1995 la Juve non vinse lo scudetto. In mezzo ci furono le vittorie in Coppa Uefa nel ’90 e nel ’93 e la coppa Italia sempre nel ’90. Ma furono anni difficili in cui sperimentai cosa volesse dire tifare per una squadra che non era più la più forte. Erano anche gli anni del Delle Alpi, uno stadio brutto e freddo. Eppure erano gli anni in cui più ho guardato la Juve dal vivo, chiedendomi se mai saremmo riusciti a tornare a primeggiare.
Ma la Juve è sempre stata, soprattutto, gioia. Il primo vero trionfo che ricordo è quello relativo alla vittoria della Coppa delle Coppe, nel 1984, con Vignola e Boniek goleador in maglia gialla. Gli scudetti. Sempre nel 1984 ero allo stadio per Juve – Avellino: un pareggio bastò per vincere il 21° scudetto. Era l’ultima gara di Furino.
Tra le gioie più grandi c’è quella dello scudetto del 1995. Una vittoria attesa 9 anni. Ero un bambino quando vincemmo il 22° titolo, ne avevo 20 quando conquistammo il 23° scudetto. Ricordo quella gara contro la Fiorentina, quella in cui in tutti noi ci fu la consapevolezza che la Juve era tornata la Juve, rimontando dallo 0-2 con una rete fenomenale di quello che sarebbe stato il più grande goleador bianconero di sempre, Alessandro Del Piero. La festa per quella vittoria fu memorabile: nuovamente Piazza San Carlo era adibita a teatro dei nostri festeggiamenti.
E che dire dello scudetto del 5 Maggio? Non ci credevo, come tutti. Avevo anche un impegno, quel pomeriggio. Così decisi: avrei guardato Lazio – Inter fino a quando non ci fosse stato il primo, inevitabile, gol dei neroazzurri. Nonostante il gol di Trezeguet dopo due soli minuti (mio padre e mio fratello, in un’altra stanza, seguivano la Juve), continuavo a non crederci. E, infatti, dieci minuti dopo ci fu il gol di Vieri su errore di Peruzzi. Era talmente tutto così scontato che uscii di casa.
Ero in macchina quando ricevetti la chiamata di mio fratello che mi annunciava il pareggio della Lazio. Massì, dissi, non succede, però almeno accendiamo la radio. Quattro minuti e segna Di Biagio. Ok, penso, stavolta è finita. Infatti, mi dirigo verso il luogo in cui il mio impegno mi attendeva quando, allo scadere, quel gran genio di Gresko fa nascere, per la prima volta in me, la speranza. Una speranza vaga, che viene dal cuore mentre il cervello mi suggerisce di non illudermi. Allora cambio percorso e mi dirigo verso il bar. Almeno guardiamola, sta partita.
Quel che viene dopo è storia, è lo scudetto più assurdo di sempre e gli juventini di Torino invadono le strade della città. La scena mitica di quel pomeriggio è l’immagine di un caro amico, interista, che al mio arrivo al bar mi saluta con il sorriso di chi la sa lunga, avvolto in sciarpa e bandiera e che, al 90′, scappa verso casa con la testa bassa. Non ebbi neanche il coraggio di prenderlo in giro…
Di calciopoli, ultima ferita, ad oggi, nel mio cuore di gobbo innamorato, ho un’immagine ben precisa. Ultima giornata di campionato, sono già uscite le intercettazioni, è evidente che lo scudetto ci verrà tolto e chissà se ci sbatteranno in serie C, ed io cammino per Torino con la sciarpa bianconera addosso. Qualcuno mi guarda con disprezzo, io rispondo con il mio sguardo fiero. Sì perchè anche se tutto sembra essere contro di noi io ho la consapevolezza che non può essere come dicono. Quella Juve era troppo forte per poter essere messa in dubbio. Quei campionati con Capello in panchina aveva mostrato una tale superiorità che non ci furono, quasi, polemiche, dubbi, sospetti. E poi, alla fin fine, Moggi poteva anche essere un criminale, ma la Juve era comunque la Juve. E sempre lo sarebbe stata, anche in Serie B.
Vennero gli anni di Cobolli Gilli, di Blanc, di Ranieri e Ferrara, dei settimi posti e della Juve che, curiosamente, diventa simpatica ai media e, un po’, anche agli avversari. Ma a noi non è simpatica per niente. Vogliamo una dirigenza forte, capace di non ostacolare ma di alimentare l’orgoglio gobbo, quello che ha trasformato una tifoseria tutto sommato silenziosa, moderata, che festeggia e poi torna nelle retrovie, in un blocco di milioni di persone che si sentono più unite, smaniose di avere giustizia e di tornare grandi, contro tutto e tutti.
La Juve del 2011-2012 è quella che fa strabuzzare gli occhi, è quella guidata dal condottiero Conte, che domina le partite, che ribadisce la propria forza ovunque, che torna, finalmente, antipatica. Con uno stadio unico in Italia, con un allenatore gobbo nell’anima, con un Agnelli come Presidente. Ero allo Juventus Stadium, la domenica della conquista del 31° scudetto.
Mi sono emozionato come quando ero bambino ed entravo al Comunale già pieno, con bandiere, sciarpe e tamburi assordanti. Poi, tornato a casa, mia figlia di neanche un anno che guarda la maglia che indosso, riconosce il simbolo della Juve (chi glielo avrà insegnato?) lo indica e sorride. Il tempo passa ma l’amore per la vecchia signora non passa mai e si tramanda, di generazione in generazione.
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